FRAMMENTI DI UN DISCORSO SULL'IMMAGINE E L'UMANO
testo pubblicato nel catalogo "Incontri all'inizio del mondo"
2012
di Davide W. Pairone

Genealogia e genetica dell'immagine

Comune ai quattro artisti, ed in particolare a Bordin e Minotto, è una pittura particellare, ritmica fino alla sincope, disgregante ma intessuta di patterns diversi: in Bordin lo spartito cromatico e segnico va in crescendo, il gesto deflagra l'immagine e la sua struttura (la pittura come congegno, come dispositivo da far brillare e incendiare). In Minotto tessuto della realtà e tessuto della pittura si compenetrano, sfaldano il limite attraverso una trama altrettanto fitta ma ripiegata su se stessa (il mondo come interiorità e proiezione riflessa). I lenti coaguli e le esplosioni furenti di Minotto creano una frizione con la realtà rappresentata che dirige verso una genealogia dell'immagine svelandone la natura doppia, tripla, n-esima. Bordin invece opta per una genetica dell'immagine, un'attenzione e cura per la forma come biologia, dotata di pulsioni proprie ed autonome rispetto al mondo - punto di partenza che come l'uomo o l'architettura, presto resta sullo sfondo, depotenziato a favore del primato pittorico e formale. C'è dunque nella costruzione dell'immagine una via sapienziale e analitica, che lentamente indaga la fonte originaria dello sguardo nel suo rapporto fra interno ed esterno (presenza/assenza dell'uomo), che va di pari passo ad una via immediatamente estatica, che cerca di sfondare il visibile verso un oltre indistinto, panico, precedente o simultaneo al big bang.
Urgenza

[…] Dalle macerie alle foreste fossilizzate fino alla vertigine di costellazioni policrome: Bordin scruta il limite trascendentale della percezione per affondare lo sguardo nella materia pura degli spazi celesti, alla ricerca di tracce divine e armonie inaccessibili all'uomo, i destini segreti dell'universo. Non vi è nessuna enfasi né retorica, i fasti dei templi arcaici non vengono celebrati come testimonianza di una grandezza possibile né la natura assume pose magniloquenti perché il tutto si mescola sotto il segno di un'interrogazione dimessa, umile eppure potente, della quale sentiamo tutta l'urgenza/universale inattualità.

Bordin e le Terre di Nessuno
di Giorgio Seveso (2007)

La tragedia dell’uomo, per Mauro Bordin, si è già compiuta attorno a noi.
Il mondo è crollato, rovinosamente sfinito, esploso in una miriade immobile di frammenti polverosi e di scaglie avvelenate. E c’è nell’aria un silenzio di cieca violenza e di perdita, un vuoto attonito di veleni e di ustioni inaudite; c’è l’impatto di qualcosa che non ha remissione, non ha scampo né consolazione. L’umanità si è distrutta con le sue mani, trascinando con sé ogni altra vita, ogni speranza, ogni futuro.
Di rado la pittura raggiunge, come qui, una così lancinante intensità, un simile brivido di espressività disperata e visionaria. È uno scroscio pietrificato, ossificato, calcinato, dove la pelle dei pigmenti e delle materie pittoriche si sfarina in altissima tensione, si accartoccia e si increspa in un gesto di assoluta sviscerazione della realtà. E dove, appunto, ogni segno, ogni tessera dell’immagine, nei suoi colori e turgori, nei suoi graffi, nelle sue lacerazioni, diventano tutti parte di una straordinaria presenza rappresentativa.
È davvero un momento alto della pittura, un momento insolitamente acuto, efficace, coinvolgente. Oggi Bordin non ha ancora quarant’anni, e non è così frequente – devo dire – trovare una tale maturità, una simile sicurezza espressiva e formale in un pittore ancora giovane per gli attuali canoni anagrafici vigenti da noi, tra Padova dove è nato, Venezia dove ha studiato e Parigi dove oggi vive.
Ho già scritto una volta – e Bordin era allora poco più di un ragazzo – che il suo piglio sicuro ed insieme emozionato, il suo accento formale così impulsivo e nel contempo misurato e programmatico nel torcere e forzare colori e segni, velature e aggrondamenti della pittura, vivevano e vivono di una stretta corrispondenza con gli elementi fondanti della poetica che, da sempre, sostiene il suo linguaggio, come una sorta di perno sentimentale, di idea fortissima, di nucleo decisivo dove non ci sono forzature, non ci sono enfatizzazioni né tratti retorici nell’affrontare – e risolvere alla grande – il problema dell’immagine.
È un discorso che si svolge del tutto naturalmente, nell’evidenza di un modo figurativo sodo e privo di esitazioni, generoso e largamente istintivo, liricamente teso, energico.
Ecco: figurazione, istinto, lirismo; le parole fondamentali per un discorso sulla pittura di Bordin sono proprio queste. Alle quali dobbiamo aggiungere la più decisiva e impegnativa: coscienza, ovvero percezione partecipe e coinvolta del senso delle cose, consapevolezza delle contraddizioni e delle alienazioni che segnano il destino dell’uomo nel mondo e nella storia. Ed è proprio nella combinazione di questi elementi e di questi impulsi diversi, nella chimica interiore che alimenta l’immaginario del nostro artista, che si svolge la sua elaborazione fantastica, l’aggrovigliarsi e il dipanarsi fervido e teso delle immagini, dove appunto Bordin in ogni occasione “registra nei segni il montare di una tensione visibile, di una sensibilità irritata, che si traduce in colore, in pigmento con una sua fisica organicità e vitalità capaci di contaminare le cose, penetrare i corpi, confondere le atmosfere e gli umori, in un pullulare di segni che è pullulare di ricordi, di frammenti di esperienze, di inquietudini, di sgomenti”, come una volta ha ben scritto per lui Giorgio Segato.
Va anche detto che gli esiti di oggi, queste Terre di Nessuno che spalancano di fronte allo spettatore le loro rovine desolatamente solitarie con un’efficacia immediata e incalzante, con un impatto emozionante di asprezza sontuosa e suggestiva, non nascono da soli o per caso, ma sono il frutto di un progressivo affinamento dei suoi attrezzi plastici, della pertinenza dei suoi modi di penetrante espressività.
Un affinamento che parte dalle agghiacciate solitudini dei letti disfatti di una decina d’anni fa fino alle montagne e agli alberi, alle onde e alle rocce appena emerse dal buio, fino alle povere rovine abbandonate dagli uomini e dai loro orrori, sparse sulla tela come relitti del tempo e della memoria.
Sempre, in questi cicli ritornanti d’immagini, una precisa densità comunicativa, impressionante per perspicuità emozionale e per maturità di sentimenti.
Nel groviglio delle pennellate che vengono scavandosi un loro itinerario, tanto torbido quanto lancinante e appassionato, fatto dei più accesi rimandi espressionistici, si dipanano le ragioni di uno sguardo preciso e impietoso che ha la straordinaria coerenza e - diciamolo pure in tempi come questi di così trionfanti e totalitarie neoavanguardie - l’insolito coraggio di essere fino in fondo e fatalmente uno sguardo figurativo. Cioè uno sguardo che, pur nella sua intensa affermazione di individualità, si pone senza esitazioni nella continuità di una tradizione pittorica precisa, quella appunto di un solco di espressionismo europeo che procedendo da Permeke e da Soutine può arrivare fino a Giacometti e a Varlin... Una strada di robusto momento, non poco impegnativa, percorrendo la quale Mauro Bordin non trova oggi molti compagni di viaggio, soprattutto suoi coetanei, ma che gli apre prospettive di larga suggestione, folti di risultati precisi ed evidenti, di esiti persuasivi.
Ed è qui, in questo coraggioso ed emozionato figurare i contorni della realtà in senso espressivo, in questo ardito equilibrismo sentimentale tra densità iconica e dilatazione dei significati, che si colloca la forte qualità istintiva del suo gesto pittorico.
Insieme alla coscienza lirica delle cose – dicevo – appunto l’istinto, in Bordin, è fondamentale. Non che la sua mano e la sua sensibilità non si siano educate alle scuole più istituzionalizzate e riconosciute, e neppure che per qualche vezzo naiveggiante o semplificatorio egli abbia scelto di trattare il segno e la pennellata come fossero frutto, sempre, di un primo impulso sorgivo, di un’ intuizione primigenia allo stato nascente... Ben al contrario, quel tratto istintivo che in lui è così determinante nel conformare i contorni della definizione plastica sembra lavorare dall’interno stesso della sua più avvertita consapevolezza, sembra operare sulla polpa stessa dell’immagine a rovesciarne ogni aspetto abituale, ogni conformismo possibile.
Il gesto espressivo agita la superficie, increspa e tira i pigmenti, imprime inaudite torsioni ai tratti portanti dell’immagine e li destabilizza, li risucchia e li rifonda su altri equilibri. I centri di gravità ne risultano mutati, sconvolti, scomposti e ricomposti su altre coordinate interiori, conformi a una diversa misura d’ordine. I materiali cromatici s’infrangono tra le aspre tessiture delle epidermidi pittoriche e delle loro vibranti geografie, esplodendo e implodendo ossessivamente attorno alla moltiplicazione dei loro centri focali.
La definizione ottica di ogni brano di queste immagini segue insomma, quasi derivando dal tracciato di una sorta di sismografo dell’anima, i sussulti e gli ondeggiamenti delle emozioni e della memoria, del sentimento e della fantasticazione, vissuti dall’autore senza mediazione e senza filtri interposti, se non quello appunto del gran fiume dell’istinto interiore che sgorga dalla trama dei suoi valori archetipi. Ed è davvero formidabile l’energia che, come da un corto circuito della sensibilità, s’intreccia a queste eruzioni di materia figurale, le plasma, le dilata, le straccia dall’interno, le modella e rimodella sull’orma delle sensazioni e delle tensioni che l’hanno prodotta.
Il modo di procedere di questo istintivo sconvolgere e rifondare le dimensioni del quadro me lo figuro per sussulti, per approssimazioni successive, per avvicinamenti e allontanamenti concentrici dell’attenzione. Se Bordin vede un’onda, insomma, o le pieghe e i rigonfiamenti disfatti di un lenzuolo, o la scoscesa maestosità di un monte di pietra e di ombre profonde, è solo la loro apparenza letterale che egli ne coglie dalla memoria o dagli occhi; l’istinto, subito, ne viene introiettando le tracce e la trama, ne assorbe l’essenza, ne assimila la struttura scarnificata fino alle sue interiorità molecolari più sepolte, per poi restituirle sulla tela come una robusta, solida, esplosiva metabolizzazione.
Non è più dunque, una montagna, un letto sfatto, un’onda di tempesta che vediamo. Non è più, o – per meglio dire – non è solo quel modello, posto come una sinopia sotto all’immagine a ricrearne pittoricamente la dimensione fisica. È invece – e in più – la sua impronta lirica, profondamente trasformata, profondamente transustanziata, tirata all’estremo limite dei suoi significati, della sua presenza come dato poetico a sé stante, monade lirica sulla quale s’impernia, cresce e si riassume la commozione dell’autore.
La trasfigurazione lirica è l’anima stessa della pittura figurativa, ne è la sua conditio sine qua non, in assenza della quale l’immagine partecipa appunto solo ed esclusivamente alla sfera della comunicazione illustrativa e didascalica, all’imitazione delle cose e della natura e non già alla sua interpretazione.
All’interno di questa dimensione Bordin si muove, oggi, con spiccato trasporto, con fervore attento.
Abbiamo di fronte qui, infatti, pagine intense e appassionanti di una assorta, sensibile, accorata poesia figurale sul destino degli uomini e dell’umanità, sui loro allarmi senza nome, sulla loro dolorosa fragilità. Ed è davvero una poesia di suggestivo e struggente vigore, in cui la pittura diviene scenario di un circo tragico, teatro di ombre e luci tremule, landa desolata di accadimenti: luogo in cui le immagini tornano a ripetersi e a mutare quadro dopo quadro, a precisare la loro natura di spazio internamente lirico. Gli esseri che vi hanno vissuto, e la loro assenza, recitano appunto il dramma nostro ripetuto di un inaudito destino, ed esibiscono la loro impossibilità a uscire dal tormento della precarietà che li circonda. È pittura, quella di Bordin, ad alta intensità metaforica.

Terre di Nessuno
Mauro Bordin (2007)


Terre di Nessuno è il titolo di una serie di quadri in cui ho affrontato il tema dell'impatto che l'essere umano ha sull'ambiente. Ho spesso descritto questi dipinti, dicendo che si trattava di opere sulla degradazione ambientale con un approccio ecologista. In realtà questa spiegazione non è esaustiva, o meglio, lo è solo in parte. Penso che il filo conduttore di questi quadri, come del resto di quelli che li hanno preceduti, sia la percezione della presenza umana nell'ambiente. Non lo avevo ancora capito così lucidamente come adesso: credo che tutti i quadri che ho realizzato, vadano in questa direzione.
Nella prima serie di opere che ho esposto, le camere da letto, mi sono soffermato sulle impronte lasciate sul letto da corpi assenti o alle volte presenti: gli indizi del passaggio di qualcuno, la descrizione di una esistenza precisa in un ambiente privato. Le montagne, i cieli e gli alberi, li ho usati in quanto simboli utilizzati dalle religioni. Nelle pieghe di un'onda o le rughe di una montagna volevo, in qualche modo, alludere alla mano che le ha plasmate, cioè - per chi è credente - quella di Dio, che potremmo anche considerare il primo uomo, in quanto ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Nelle figure e nei crocifissi, ho affrontato il corpo umano come soggetto principale. Ho cercato di dar tanto peso e volume al corpo, ed ho eliminato ogni riferimento esterno, immergendolo nel buio. Ciò per sottolineare quanto l'uomo è diverso rispetto agli altri esseri viventi, e quanto è grave la sua responsabilità come dominatore del mondo. Nelle città in rovina, ho messo in scena una delle conseguenze di questa responsabilità, cioè la distruzione da parte dell’uomo del suo stesso ambiente e di ciò che in esso vi ha costruito, in nome di un'inutile corsa al progresso. Infine, nella serie più recente, Terre di Nessuno, che ha dato inizio a questa riflessione, il passaggio dell'uomo nonè più evidente, o appare remoto: talvolta lo si può solo ipotizzare.

Labirinto
Mito, edificio, danza... racconto

dal catalogo della mostra
2006
Giancarlo Mandrioli

"No man's land", un olio su tavola di Mauro Bordin è il primo meandro in cui ci imbattiamo: un gioco cromatico che tesse una complessa rete dendritica subito ci attanaglia, ci pervade e ci disorienta. Dove siamo? E' una terra in cui nessun uomo ha mai vissuto, o piuttosto una terra in cui l'uomo stesso tutto ha distrutto precludendosi la possibilità di sopravvivere? Ci si perde in un labirinto di muri, di siepi, ma ci si può smarrire anche, con pari angoscia e con nessuna speranza nel cuore, nel labirintico deserto della distruzione! Par di udire solo la voce possente e le roboanti parole del tuono, e ci tornano alla mente i versi de "La Terra Desolata" di T.S.Eliot:
"Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati / Dopo il silenzio gelido nei giardini / Dopo l'angoscia in luoghi petrosi / Le grida e i pianti / La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato / Del tuono a primavera su monti lontani / Colui che era vivo ora è morto / Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo / Con un po' di pazienza". E' terminato il viaggio? Oppure quei sottili filamenti di colo-re creeranno una via di uscita? E' possibile! Si legge anche speranza nell'opera di Mauro Bordin: dal labirinto disperante della distruzione, che ha prodotto un cielo di cenere, può rinascere la vita, che ha radici in una terra sanguigna, potenzialmente ancora fertile.

Parole sulla pittura
Intervista realizzata a Parigi il 26 e 27 febbraio 2005
Da Philippe Villaume e Pascal Bordenave
Traduzione dal francese di Lorita Addabbo

Pascal Bordenave: Mauro Bordin, il tuo mestiere di pittore nasce da una vocazione ?
Mauro Bordin: Probabilmente sì...Già da bambino disegnavo molto, ma all'epoca era piuttosto al fumetto che avrei voluto dedicarmi. E' a partire dall'adolescenza, quando mi sono iscritto al Liceo artistico e ho cominciato a studiare il disegno accademico, che ho iniziato ad interessarmi maggiormente alla pittura. Mi sentivo soprattutto attratto dalla tecnica : mi piaceva disegnare, mi piaceva dipingere. Ma credo che è solo dopo aver terminato gli studi all'Accademia delle Belle Arti che ho deciso di farne il mio mestiere, poichè sentivo di avere qualcosa da dire pur non sapendo ancora come esprimerlo. Credo che tutto sia cominciato nel momento in cui ho smesso di chiedermi: cosa voglio dipingere? Mi sono guardato intorno ed è stato allora che ho cominciato a dipingere la mia camera. Era l'inizio dell'avventura; si trattava della mia storia personale, certo, ma per me era un buon punto di partenza.

P. B.: Ma perché unicamente delle stanze da letto e non altri luoghi ?
M.B.: La camera da letto è il luogo dei momenti fondamentali della vita, come la nascita, la morte, l'amore, ed è un posto in cui passiamo buona parte del nostro tempo; il letto diventa dunque il depositario delle tracce della nostra esistenza. Allo stesso tempo, la stanza è un luogo chiuso. All'epoca, ero rimasto colpito dalla lettura di due libri in particolare, Oblomov di Goncarov, e Delitto e castigo di Dostoïevski. In quest'ultimo c'è un personaggio, Raskolnikov, che è quasi sempre nel suo letto, incapace di qualsiasi azione. La sua camera è come un nido che lo accoglie, lo protegge, paragonabile al grembo materno… Ma è anche una trappola, una prigione, perché essa gli impedisce di confrontarsi con il mondo, di affrontare la realtà.

P. B.: C'è un elemento autobiografico in questa tua scelta tematica?
M. B.: Sì e no. Certamente c'è una parte di me stesso che vorrebbe restare a letto, che vorrebbe non dover uscire dalla sua camera...Tuttavia sono una persona abbastanza attiva e la vita che è all'esterno, il confronto con la gente, non mi fanno paura; al contrario, penso di cercarli, di averne bisogno. Ma resta sempre una specie di angoscia, di disagio, a cui ho cercato di dar forma, credo, attraverso questi quadri.

P. B.: Nelle tue stanze da letto si puo' notare una serie di oggetti ricorrenti, come l'abat-jour, la finestra, la poltrona… Attribuisci loro un significato preciso?
M. B.: Il letto e gli oggetti che lo circondano fanno parte della vita quotidiana. È vero che la camera da letto è il luogo più privato della casa, è il teatro dei nostri incontri intimi, del nostro inconscio, dei nostri sogni. Sin dall'inizio volevo ridurre al minimo il numero di oggetti per rendere il mio messaggio più leggibile. Quello che m'interessava era offrire una testimonianza di questa vita attraverso delle tracce visibili, per esempio i libri, gli indumenti in disordine, ecc. Ho cercato allo stesso tempo di mettere in evidenza i passaggi, le transizioni, per esempio attraverso le finestre. La luce che penetra attraverso la finestra, la fa apparire quasi come un'insegna luminosa a segnalare la presenza del mondo esterno nel cuore più intimo della casa, ma anche metaforicamente simboleggiare l'incontro fra il conscio e l'inconscio.

P. B.: Ho l'impressione che si sia verificato un mutamento progressivo nel tuo approccio alla pittura attraverso le opere di questo periodo. Parti da un punto di vista sostanzialmente naturalistico, descrittivo, e ti dirigi verso qualcosa a mio avviso di più metaforico, di più simbolico…
M. B.: All'inizio dipingevo la mia stanza da letto e quella della persone a me vicine, e probabilmente ero soddisfatto di una semplice rappresentazione della realtà. In seguito ho cominciato a definire meglio gli elementi più carichi di connotazione, e ad introdurli nei quadri. A poco a poco, ho affinato le mie tele e stratificato la materia pittorica, per permettere alla sedimentazione delle tracce di esprimersi. Ho quindi arricchito i quadri di colori, di strati, sempre con l'intenzione di animare il soggetto. Nella serie delle camere da letto, alla quale mi sono dedicato per cinque anni, le fasi di quest'evoluzione sono chiaramente visibili. Gli ultimi quadri rappresentano, con poche eccezioni, il solo letto. Li considero un po' come opere di transizione, poiché presentano degli elementi formali e cromatici che anticipano la serie successiva dei paesaggi. Per esempio le lenzuola del letto che evocano le onde di un mare... L'idea di associare il letto al mare e di conseguenza, il sonno ed il sogno al viaggio, al naufragio, è nata semplicemente durante la pratica pittorica. Ho sempre ricercato nei miei quadri il movimento, nel caso del letto, non ho mai voluto rappresentarlo in ordine, bensì cercavo di riprodurre un letto vissuto, dove qualcuno aveva dormito dentro.

P. B.: Il passaggio graduale all'astrazione rende le tue tematiche sempre meno “riconoscibili”, tuttavia continui a dare alle tue opere dei titoli ancorati alla realtà, come “ Stanza in verde” o “Abat-jour”. Come lo spieghi?
M. B. : Il mio attaccamento alla realtà corrisponde semplicemente al desiderio di restare legato ad un qualcosa che possa essere raccontato . L'astrazione in quanto tale non mi interessa molto poiché essa sfocia facilmente nella ricerca puramente formale. La pittura ci offre la possibilità di raccontare delle storie, non vedo la ragione per cui dovremmo privarcene.
Secondo me il titolo non è così importante, la tematica è subito riconoscibile, è un dato immediato dell'opera. Per quanto riguarda le tele appena citate, sono sicuramente dei dipinti molto distanti dalla realtà, perché fanno parte dei miei ultimi interni. Nell'ultimo periodo di questa serie, capita che le stanze si ripetano, sono dei luoghi in cui ho dormito, vissuto, e che ho dipinto diverse volte. Dipingendole ancora, volevo quasi che le immagini uscissero da sole dal magma della pittura, come delle evocazioni dalla memoria, che non fossero totalmente definite dal disegno preciso, stereotipato, ma che rimanessero uno spazio aperto in cui potersi perdere.

P. B.: Renato Valerio scrive che le “stanze da letto” sono “dei frammenti della visione di un universo intero, e non dei pretesti pittorici” che rimangono isolati. Quello che ti interessa dunque, non è tanto l'oggetto, quanto la visione del mondo che esso suggerisce...giusto?
M. B.: Sì, e credo che sia sempre così: un artista suggerisce sempre una particolare visione del mondo.

P. B.: ...un artista che porta a termine con successo la propria opera?
M. B.: Poco importa che la porti a termine con successo o che vada incontro al fallimento. Ho sempre lavorato su delle serie perché volevo prima di tutto raccontare delle storie, storie per le quali ho preso spunto dalla mia esperienza personale, ma che si vogliono rappresentative di un'esperienza più generale, nelle quali chiunque possa riconoscersi.

P. B.: Mauro, l'anno 1998-99 è l'anno della rottura...Decidi di “abbattere” i muri della tua stanza e di esplorare i paesaggi. O meglio, degli elementi precisi del paesaggio, come il mare, la montagna, l'albero. Perché questo cambiamento?
M. B.: Per cinque anni mi sono dedicato esclusivamente alle camere da letto, e sentivo di avere esplorato a sufficienza questa tematica. Ho voluto dunque effettuare un cambiamento importante, abbandonando un soggetto abbastanza strutturato dal punto di vista della prospettiva e dell'approccio all'elemento spaziale, per dedicarmi a soggetti naturali, tradizionali, in cui la prospettiva si riduce ad una struttura binaria: soggetto/sfondo. Ho messo da parte l'uomo per concentrarmi sugli elementi della natura che lo hanno ispirato. Mi ha molto affascinato lavorare su questi soggetti in quanto essi si ritrovano in tutte le civiltà, a partire dalle più antiche, con una valenza simbolica analoga. La montagna, per esempio, è legata all'idea dell'incontro fra l'uomo e Dio; essa è presente nella Bibbia, certamente, ma mi fa pensare anche alle piramidi egizie, al monte Fuji in Giappone, ai Maya...Tutti i popoli hanno delle montagne sacre, o delle costruzioni che riproducono la forma della montagna. Luoghi in cui gli eremiti si ritirano per incontrare Dio, per raggiungere la saggezza.

P. B.: L'albero, la montagna...c'è un ripetersi di elementi verticali: attribuisci loro un significato preciso?
M. B.: Delle mie “montagne” e dei miei alberi mostro solo la cima, il punto in cui il cielo e la terra si incontrano. Quello che volevo evidenziare in questa serie di quadri è il conflitto fra la nostra dimensione terrena, materiale, e il bisogno di trascendenza, di spiritualità, e trovo che l'elemento verticale sia adeguato al soggetto.

P. B.: Fra i tuoi quadri, “Cielo stellato” mi sembra uno dei più radicali, in quanto è quello che maggiormente si allontana dai punti di riferimento della rappresentazione. Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a realizzare questo notturno, e qual è il tuo legame con la tradizione del notturno nell'arte? C'è forse qualche relazione con il manierismo a cui fai spesso riferimento?
M. B.: Il manierismo, e in particolare gli artisti Veneti, come Tiziano e Tintoretto, che ho studiato a lungo, è sempre stato per me un punto di riferimento. Uno degli elementi più interessanti del manierismo è, secondo me, la messa in scena teatrale, che permette all'osservatore di essere “inserito” nel quadro; principio, quest'ultimo, al quale mi sono sempre ispirato.
Per quanto riguarda “Cielo stellato”, l'ho realizzato con il preciso intento di creare un'opera “contemplativa”, nella quale ci si possa perdere.

P. B.: In generale, quali rapporti mantieni con la tradizione pittorica e con i diversi generi?
M. B. : E' un legame di affetto, di riconoscenza. Credo che sia sempre una sfida attraente quella di confrontarsi con i grandi artisti, e in un certo senso ognuno lo fa a modo suo. Non mi sono avvicinato ai diversi generi per seguire la strada di altri artisti, ma solo perché s'inseriva nel mio percorso. Sono molti gli artisti dai quali ho tratto insegnamenti, alcuni del passato, come Tintoretto e Tiziano che ho già citato, ma anche Goya e Rembrandt. Fra i pittori del ventesimo secolo potrei citare invece Soutine, Sironi, Kiefer… Soutine, in particolare, è sicuramente il pittore del novecento che preferisco.

P. B.: Mauro, il tema della crocifissione è un genere pittorico a sé stante che alcuni artisti contemporanei continuano ancora ad esplorare. Come definiresti il tuo approccio personale del soggetto?
M. B. : Questo tema mi ha sempre attirato, da un lato per le sue implicazioni morali, dall'altro perché mi permette di confrontarmi con “la storia dell'arte”. Quello che mi interessa è principalmente il discorso sull'individuo diverso ed incompreso che subisce il martirio a causa di questa sua diversità. Il Cristo crocifisso è l'emblema dell'uomo solo, condannato ingiustamente dal suo popolo. Un uomo che non accetta le leggi della sua società e di conseguenza non riesce a trovarvi il suo posto. Ma è anche un individuo con un'energia enorme, pronto a sacrificare la propria vita in nome delle sue idee.

P. B.: Si potrebbe stabilire un parallelo fra la figura del Cristo e quella dell'artista, persona diversa e un po' marginale rispetto alla società?
M. B.: È possibile. È vero che la figura del Cristo è quella di una persona sovversiva e, allo stesso tempo, creativa, figura nella quale un artista potrebbe dunque riconoscersi legittimamente...
In un certo senso, come già avviene nella serie delle montagne e degli alberi, il Cristo crocifisso è un simbolo. Molti hanno un crocifisso in casa, ma quanti pensano, guardandolo, che si tratta della rappresentazione di un morto? Il Cristo rappresenta l'incontro fra la dimensione fisica, l'uomo, e la dimensione divina. La crocifissione è il passaggio dalla vita alla morte, e, per i cristiani, dalla dimensione terrestre a quella celeste. Non è un caso, credo, che la scena di quest'evento sia una montagna.
Se c'è un limite in questa serie di quadri, è che il soggetto manca un po' di sfumature senza che si presti davvero ad essere trattato diversamente. La crocifissione è il tragico, la solitudine, la tristezza. Secondo me il Cristo crocifisso è anche lo specchio del nostro corpo che si disfa, che invecchia. Diciamo che ho cercato di mettere in forma e dare eternità a questo momento.

P. B.: Mauro, il tuo dipinto dedicato ad Hiroshima dopo la bomba atomica, è un'opera dalle dimensioni davvero enormi, quasi 30 metri di lunghezza. Quando hai cominciato questo lavoro?
M. B.: Ho cominciato nel 2001, e ho terminato nel 2003, con qualche pausa. E' un lavoro per il quale ho scritto un progetto, non è “solo” un quadro...Volevo realizzare un'esposizione davvero “spettacolare” per rendere omaggio alla dimensione della tragedia umana.
“Hiroshima” misura quasi trenta metri di lunghezza per due e mezzo d'altezza. Si tratta di un enorme puzzle composto da 220 parti assemblate. Il progetto espositivo prevede due fasi distinte: la “scomposizione” e la “ricomposizione”. Nella prima fase l'esposizione dell'opera è seguita dalla vendita delle parti del puzzle dissociate. L'idea è che la gente possa acquistare una parte del quadro durante l'esposizione lasciando così apparire degli spazi vuoti fino al cancellamento progressivo dell'opera. In questo modo cerco di illustrare, o meglio di rendere tangibile il meccanismo della memoria e dell'oblio. La seconda parte dell'esposizione, che avrà luogo fra un numero indeterminato d'anni, sarà consacrata alla ricostruzione dell'opera.

P. B.: Ma sarà necessariamente una ricostruzione incompleta...
M. B.: Certamente incompleta, ma emblematica della memoria che si cancella. Alcune parti saranno probabilmente danneggiate, altre perse per sempre...Ma questo fa parte del meccanismo della memoria collettiva. Ognuno è depositario di un'esperienza individuale, simbolicamente raffigurata da una parte del quadro, parte che, per quanto piccola entità astratta ricavata da un'opera figurativa, rappresenta l'appartenenza all'evento. Attraverso la ricostruzione del quadro intendo sottolineare la necessità di alimentare la memoria e di affermare che di fronte agli eventi tragici della storia, quello che conta prima di tutto è la solidarietà, la necessità di trovare un accordo fra la gente per arrivare a qualcosa di costruttivo.
Il progetto mette dunque in scena una rappresentazione metaforica e rituale dell'azione distruttiva dell'uomo insieme alle possibilità di ricostruzione attraverso la memoria.

P. B.: In questo lavoro si intravede una nuova dimensione rispetto alla tua opera precedente: c'è una presa di posizione nei confronti della storia dell'umanità.
M. B.: Sì. Ho cominciato la realizzazione di “Hiroshima” all'epoca della guerra in Afghanistan, ma non ho voluto fare un lavoro direttamente legato a questo paese. Ho preferito lavorare su una tragedia del passato, che mi permettesse implicitamente di esprimere il mio disaccordo di fronte agli avvenimenti del presente. Sono nato nel 1970 e sono cresciuto in un paese in cui ci hanno insegnato il rifiuto della guerra. Ma a quanto pare oggi la situazione è cambiata. È per questo che ho sentito la necessità di parlarne, di far luce sul presente attraverso il passato e, in un certo senso, di esorcizzarlo.

P. B.: Cosa ti ha dato, il fatto di lavorare su un quadro dal formato così inabituale?
M. B.: Per la prima volta nella mia carriera, ho lavorato su di un quadro che era troppo grande per essere visto nella sua integralità, quindi in un certo senso mi sono sentito come l'acquirente che avrebbe visto a casa sua solo una parte dell'opera. Ho dunque dovuto lavorare immaginando il risultato finale. L'ho visto per intero solo alla sua prima esposizione a Padova nel 2003. Fino a quel momento, non avevo un'idea precisa del risultato finale. Ero costretto a non concentrarmi troppo sul dettaglio e a tener sempre presente l'insieme dell'opera.

P. B.: In che modo “Hiroshima” ha fatto evolvere la tua pittura?
M. B.: Prima di tutto, rispetto alla precedente serie delle crocifissioni, è un ‘opera più “ottimista”, anche se puo' sembrare paradossale. Hiroshima è un soggetto molto delicato, avevo paura di parlare di qualcosa che non conoscevo, poichè non l'avevo vissuto. Per me era importante commemorare e allo stesso tempo dare un messaggio di speranza da parte di un artista che non ha mai vissuto il dramma della guerra. Ho cercato di rendere leggibile tutto questo attraverso il colore; quest'ultimo elemento rappresenta l'energia che circola, la vita che controbilancia la morte. In realtà, la scelta di utlizzare molti colori per dipingere delle rovine, è un'idea che mi è stata suggerita da un passaggio di Se questo è un uomo , di Primo Levi, che descrive il tramonto su un campo di concentramento. Il contrasto fra la bellezza del cielo e lo squallore assoluto di Auschwitz sottolinea perfettamente la totale indifferenza della natura ai drammi umani, contrariamente all'atteggiamento “espressionista”, che consiste nel rappresentare una natura partecipe, atteggiamento che volevo evitare.

P. B.: Dopo “Hiroshima” sei rimasto concentrato sul tema delle rovine. Perché?
M. B.: Ho continuato il lavoro che avevo cominciato con “Hiroshima”, e ho dunque realizzato una serie di quadri su Dresda. Entrambe sono città emblematiche della follia distruttiva: Hiroshima è la prima bomba atomica, mentre Dresda che è stata bombardata dalle forze alleate nel '45, era una città d'arte, non necessariamente un obiettivo militare. In seguito, ho realizzato alcuni quadri su Varsavia, Caen, ed altre città distrutte nel corso della seconda guerra mondiale.
Dopo “Hiroshima”, avevo il desiderio di fare dei quadri dal formato “accessibile”, rappresentanti delle strade ingombre di macerie, che suggerissero un cammino attraverso le rovine, mentre “Hiroshima” ha l'ambizione di rappresentare tutto un paesaggio, a 360 gradi. In entrambi i casi, comunque, quello che mi interessa è mostrare la follia umana, il suo potere di devastazione senza limiti. Il mio lavoro di artista consiste anche nel dare forma all'assurdità e al caos.

P. B.: Cosa ti attrae nell'idea di dare una forma al caos?
M. B.: Il caos è un concetto ambivalente in cui coabitano la rappresentazione della distruzione e la possibilità di una ricostruzione, è il momento in cui la vita e la morte si ricongiungono. In esso la fine e l'inizio si confondono; nei miei quadri il caos è rappresentato dalle rovine, quindi da immagini di distruzione, ma è proprio di qui che la vita ricomincerà. Credo di mettere l'osservatore davanti ad una scelta, ha la possibiltà d'interpretare l'immagine in maniera ottimistica o meno. In questo senso l'aver posizionato in primo piano le strade è emblematico di questa scelta. Contrariamente a quanto ho fatto con la serie dei crocifissi, in queste opere, ho cercato espressamente che le immagini fossero sufficientemente ambigue da prestarsi ad una duplice interpretazione.

P. B.: Che si tratti di montagne, marine o città bombardate, tu lavori molto a partire da documenti fotografici…
M. B.: In realtà il documento fotografico è un punto di partenza, è per questo che cerco sempre di trovare fotografie in bianco e nero, in genere delle fotocopie di libri. Non uso mai immagini a colori, perché preferisco interpretare i colori in maniera personale; le fotografie servono a catturare una certa atmosfera, a porre delle linee guida nella composizione formale del quadro, nient'altro.

P. B.: Per concludere, guardando il tuo lavoro, in particolare le rovine, ho l'impressione a volte che il soggetto del quadro serva solo da “pretesto” al lavoro propriamente pittorico, che esso sparisca dietro la materia stessa del quadro. Sei d'accordo?
M. B.: Si, ma credo che questo avvenga sempre, ed è così per tutti gli artisti secondo me, perché è la pittura che fa vivere il soggetto. Il soggetto è un'idea formale, è l'interpretazione che dà valore all'opera, non l'intenzione. In questo momento lavoro molto sulla materia: creo un certo spessore sulla tela grazie a differenti strati di pittura, utilizzo molti colori, cerco il movimento, ma questo è sempre legato all'idea della stratificazione dei segni del tempo.
Dal punto di vista tecnico non so quasi mai in anticipo quale sarà il risultato, e d'altronde è questo che mi piace nella pittura: il quadro si crea giorno per giorno, momento per momento, e varia secondo gli stati d'animo.

Hiroshima
Giorgio Segato e Mauro Bordin
(Padova, 5 settembre 2003)

6 agosto 1945. Il 98 % di una città allora di circa quattrocentomila abitanti è disintegrata dalla bomba atomica. Oltre settantamila furono i morti nel giro di pochissimi istanti, polverizzati o carbonizzati, molti, molti di più quelli in conseguenza delle radiazioni e degli effetti collaterali alla catastrofe, decisa come momento esemplare per por fine alla guerra. La documentazione dell'evento è nel Centro della pace, opera dell'architetto Kenzo Tange, costituito da un museo e da cinque grandi ospedali di cura e di ricerca, uno dei quali chiamato 'bomba A'. Ogni anno si rievoca questa immane tragedia che ha segnato profondamente la metà del secolo scorso, occupando l'immaginario collettivo, diffondendo la paura del nucleare, promuovendo la convivenza obbligata con l'eventualità della distruzione totale a causa della conflittualità permanente dei blocchi ideologici delle grandi potenze prima, e ora in conseguenza delle tante guerre locali, della competizione per il controllo delle materie prime (non solo petrolio), dei fondamentalismi religiosi. Le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno nuovamente sollevato l'allarme nucleare e mostrato un impressionante potenziale distruttivo, fatto sentire la spregiudicatezza del potere del nuovo imperialismo americano.


I venti di guerra (Africa, Kossovo, 11 settembre, Afghanistan, Iraq) hanno sollecitato Mauro Bordin a riflettere sul suo ruolo di artista testimone del tempo, esploratore del proprio mondo intimo, di idee, di sentimenti, e di interprete della realtà circostante, del suo significato a livello individuale e a livello collettivo.
Nel 1993 avevo un'idea troppo confusa del ruolo dell'artista; avrei voluto trarre qualcosa dagli insegnamenti ricevuti, ma non capivo quale poteva essere il mio contributo al mondo artistico. Decisi così che sarei dovuto partire da zero. Mi guardai attorno per capire come...
La lunga sequenza degli interni, così come subito dopo quella dei 'letti sfatti' erano esplicite modulazioni di una pittura come introspezione, sorvegliato auscultarsi e tastarsi per definire e meglio comprendere la propria identità, il proprio tempo, il proprio spazio esistenziale ed emotivo, un lungo indugiare tra le lenzuola in attesa di affrontare il mondo, un'attesa di energie, di idee, un prendere le misure tenendosi al riparo.
La mia camera da letto... la scrivania, gli oggetti quotidiani...
Compito dell'artista, pensai, è quello di creare un mondo. La camera da letto era il mondo che decisi di dipingere.
II proprio letto è depositario di tutta l'esistenza, metaforicamente è testimone della nascita e della morte, della vita diurna governata dalla ragione e di quella notturna dai misteri dell'inconscio...
All'inizio mi concentrai sulla realtà oggettiva: quello che gli oggetti raccontavano. Cercai di muovermi in uno spazio simbolico, fatto di pochi elementi in relazione tra loro... Poi, con gli anni ho sentito il bisogno di sondare l'invisibile e ho provato a materializzare le tracce lasciate dagli eventi passati, i "ricordi" dei luoghi, le impronte dei corpi, gli umori...
Le stanze da letto e i "letti sfatti" diventano per Bordin una sorta di universo concentrico, di labirinto e, insieme, di crisalide, di luogo protetto e protettivo, un mondo in cui sempre di meno filtra la luce esterna, sempre più la visione è dominata dalla memoria dei sensi, da una corporeità presente/assente.
Rimaneva solo qualche lumicino a illuminare uno spazio ispessito dallo stratificarsi di ricordi passati. Il letto, persa quasi ogni parvenza oggettiva, con i suoi drappeggi simulava l'idea di un naufragio.
Nel 1997, dopo anni di 'letti sfatti' sente il bisogno di confrontarsi con altre tematiche e sostituisce il 'diario' intimista di lenzuola e coperte con soggetti tradizionali inondati di luce: l'albero, la montagna, il mare, i cieli stellati. Emerge il bisogno di natura, di riconquista di un senso panico, di appartenenza e di partecipazione alla natura, all'ambiente aperto e non artificiale che la vita sedentaria e la cultura confezionata e telematica tendono sempre più ad escludere dall'esperienza diretta. È stato come un inventarsi percorsi estremi, al limite, a contatto con la roccia più aspra e ripida, con il mare burrascoso, per vivere nel tempo della pittura, degli impasti cromatici, delle velature, dei ritocchi, non tanto il rischio, l'eccitazione per il pericolo, quanto l'esaltazione per la prossimità, cioè del contatto corporeo simulato. Significava, con la pittura, con il fare pittura, riproporsi in competizione con la fotografia, con gli effetti speciali di video e cinema, per ritrovare e prolungare in sé la misura delle cose, lo spessore, la qualità dell'esperienza delle cose: un pittura che, dunque restituisce o meglio ricompone e comunica nel fare la percezione della realtà e, in particolare, di una realtà, vissuta interiormente, che sempre più si allontana da noi, non nutre più le nostre fantasie, e ci viene a mancare anche nei sogni perché somministrata per surrogati non coinvolgenti. Bordin cercava qualcosa che scuotesse, che in certo senso sconvolgesse l'inerzia dei sensi riattivando la memoria del corpo, non semplicemente come luogo dei ricordi, ma per restituirla alla sua facoltà immaginante, con la quale essa rielabora le esperienze, riportandole vitali al presente, alla comprensione del presente, al presentimento di un futuro sostenibile. Così, dopo alti alberi, montagne, mareggiate "posti in fondo al quadro in un incessante dialogo col cielo. Dal punto di vista tecnico si trattava di scarnificare l'immagine per ricercarne l'essenziale, rinunciando alla prospettiva, al punto di vita e confrontandomi solo con due piani: soggetto e fondo", ecco Bordin affrontare la Crocifissione, il tema del martirio, in figure in sospensione tra terra e cielo, tra corpo e spirito, senza più passato né futuro, "sorta di cariatidi che portano il peso del peccato originale". Anche la decisione di rappresentare Hiroshima viene da una volontà in certo senso "espiante" e di dare alla propria pittura un significato e una capacità mobilitanti: un'esplicita dichiarazione contro la guerra innanzi tutto e un'esperienza di sollecitazione di emozioni di disagio, di desolazione, di smarrimento di fronte all'atroce esemplarità di Hiroshima.

Sono cresciuto in un Paese e in un'epoca in cui l'idea della guerra apparteneva a realtà lontane. L'intervento italiano, dapprima nella guerra del Golfo e successivamente in quella dei Balcani, credo abbia rappresentato un trauma per molte persone. In quel per lodo però non ero ancora in grado di esprimere un 'idea politica e sociale attraverso i miei dipinti. Dopo l'attentato di New York e la successiva guerra in Afghanistan decisi che il tempo era venuto. Concepii allora un progetto artistico a cui diedi il nome di "Progetto Hiroshima". E innanzi tutto un monumento alla memoria, una riflessione sulla testimonianza collettiva che mette in scena una rappresentazione metaforica e rituale dell'azione distruttiva dell'uomo e delle possibilità di unione e di ricostruzione.

Il dipinto rappresenta il paesaggio di Hiroshima dopo l'esplosione della bomba atomica al mattino del 6 agosto 1945. Il formato è monumentale: due metri e mezzo di altezza per circa trenta metri, composti da più di 200 parti assemblate. Il progetto operativo di realizzare pittoricamente l'immagine della smisurata "spianata" della città sorta attorno a un castello del 1591, e il progetto espositivo in un allestimento da percorrere piuttosto che da vedere frontalmente, così come il 'destino' auspicato dall'autore per le singole parti (diaspora e periodica, rituale, ricomposizione) convergono sulla medesima finalità: mettere insieme, come artista, come pittore, il paesaggio di morte e di annientamento, riquadro per riquadro, momento per momento, dalle colline azzurre a sinistra al castello e alle foci del fiume Ota al centro, dai pochi resti delle alte costruzioni del cuore urbano attorno alle anse fluviali fino all'aprirsi della vasta pianura a destra, studiando ogni particolare, ogni residuo del fungo e del vento atomici, che resteranno memorabile, indelebile tragico retaggio nella storia e nella cultura dell'umanità, segnali di un radicale mutamento nei rapporti politici, economici, ideologici, ambientali.
La dimensione dello spazio espositivo dovrebbe dare allo spettatore l'illusione di coinvolgimento nel paesaggio. Ad una settimana dall'inizio dell'esposizione il dipinto verrebbe messo in vendita, foglio per foglio. Gli acquirenti sceglierebbero la parte o le parti che più interessano loro; queste ultime verrebbero ritirate dall'insieme al momento della vendita, lasciando così apparire una serie di vuoti, di "assenze" come segni anticipatori di una graduale, inevitabile, cancellazione. E' dunque un'esperienza che richiede al pubblico di appropriarsi dell'evento, di demolirlo, scomporlo, di metterne ritualmente in scena la dispersione, la cancellazione nell'oblio come attraverso le migliala di occhi che l'hanno vissuto, ognuno da un'angolazione diversa, troppo piccola, troppo parziale. E il coronamento dell'impresa dovrebbe essere la celebrazione della memoria. Alla data dell'anniversario, il 6 agosto, gli acquirenti dovrebbero riunirsi per ricostruire l'opera e perpetuare la memoria dell'evento, consegnandola alle generazioni future.

La meticolosità compositiva ed interpretativa del pittore, la misura dell'opera in altezza, sovrastante di molto la figura umana, e in lunghezza (ben trenta metri) creando un tempo lungo di percorso e di sollecitazione sensoriale, e, inoltre, la scelta stilistica e materica di una figurazione di realismo atmosferico evocante piuttosto che oggettivo o espressionistico, accentuano l'effetto di assorbimento dell'osservatore nel luogo dipinto e nella durata. L'idea di Bordin è quella di produrre un forte effetto scenografico di più diretto coinvolgimento, e capace di dare ben più di un'informazione visiva, cioè anche di infondere una consistente corporeità all'immagine, così da provocare risentimenti fisici, onde sinestetiche lunghe e profonde. Il progetto aspira anche a proporsi come tramite di una periodica celebrazione di Hiroshima, interrompendo la diaspora dei fogli venduti separatamente e ricomponendo l'insieme per quanto possibile - in luoghi e tempi convenuti, con la partecipazione, attiva (di presenza effettiva) o passiva (di assenza che comunque manifesta il degradarsi dell'opera) degli acquirenti: un'idea utopica, naturalmente, specialmente se si considera la quantità e la fragilità intrinseca dei fogli, e la difficoltà, oggi, di creare momenti di aggregazione così speciali, ma utopia positiva che, in ogni caso, rende bene l'alto significato simbolico di un intervento artistico che vuole esprimersi contro la guerra, contro tutte le guerre come distruzione e morte, dipingendo gli effetti di una deflagrazione atomica di oltre cinquant'anni fa, reinventandola nel colore, nell'atmosfera mortale del dopo esplosione, nella trasparente, tersa desolazione di dopo la ricaduta della polvere radioattiva.

Ora Hiroshima è ricostruita; la restituzione è stata rapida e ben orchestrata col processo di cancellazione dalla memoria visiva di superficie, ma certamente la sua distruzione resta tra gli eventi che hanno cambiato, sconvolto la storia e l'uomo stesso. Mauro Bordin ci propone un efficace "memento", come allarmata difesa della pace, in una sorta di datzebao dipinto, che ha il valore di un grande murale di informazione socio-politica oltre che estetica, smontabile e ricomponibile e in ogni sua parte testimonianza di distruzione, di morte e anche di impotenza di fronte a un così alto (e tanto maggiore oggi) potenziale di annientamento, di autoannientamento dell'uomo, o, meglio, dei governi degli stati egemoni e sempre di più anche di stati minori per una irrazionale corsa al nucleare, agli armamenti di distruzione di massa e su grande scala come deterrente interno ed esterno. L'armamento del globo ha raggiunto livelli tali da poter distruggere il globo stesso e ogni essere vivente centinaia e centinaia di volte in pochi minuti (The age of overkilling fu definito il nostro tempo già una trentina di anni fa e più). Guerre, distruzioni, morti, inquinamento, contaminazioni, deformazioni e degenerazioni genetiche, alterazioni ambientali aumentano costantemente nelle varie parti del mondo nonostante il pericolo che Hiroshima e Nagasaki testimoniano: molto si è visto e letto sulle due città pressoché disintegrate, molto si torna a vedere e a riportare alla memoria ad ogni anniversario; moltissimo, credo, non è stato detto, non si è visto, viene taciuto, ma il 6 e il 9 agosto 1945 restano certamente come date indelebili nella storia dell'umanità e degli orrori che le guerre producono, piccole o grandi che siano, quale che sia il coinvolgimento territoriale. Mauro Bordin ha preso in esame i documenti fotografici e le relazioni sul dopo bomba atomica e ha composto una lunga veduta panoramica di Hiroshima, evidenziando la trama delle strade, le prospettive deserte, i resti di palazzi e di quartieri, del castello attorno al quale la città si era sviluppata, le grandi anse del delta fluviale dove sorgeva uno dei porti più trafficati del Giappone, le colline, gli spazi dei vasti giardini. Nonostante la presenza di ruderi urbani, colpisce subito l'assenza o la scarsa quantità di macerie: uomini e materie si sono dissolti per il calore senza lasciare traccia, neppure un'impronta. Di qualche antico albero si vede la struttura carbonizzata in un lampo, i residui abitativi sono sconvolti e svuotati, come se l'evento fosse accaduto da tempo e il territorio da tempo fosse abbandonato, terrain vague, di nessuno e senza più forme di vita. Restano evidenti i depositi della ricaduta della polvere atomica, in strati e colori diversi, ad ammalare il terreno ad ammorbare un'aria tornata tersa sul nulla rimasto.

Non poche difficoltà ho dovuto superare nell'affrontare un così delicato soggetto, a partire fin dall'approccio stesso. Chi abbia visto le foto originali di Hiroshima, difficilmente avrà avuto la percezione dei colori. Ma il mio intento non era quello di documentare, ed in più ho avuto il vantaggio di una certa oggettività datami dalla distanza, sia temporale che geografica. Volevo dedicare il mio dipinto alle vittime della bomba atomica e alla loro progenie, che ancora porta segni ben visibili. Nell'atmosfera generale introdussi un senso di morte, come presenza implicita, permeante, cercando di mettere in primo piano - col colore - l'energia vitale, la spinta alla sopravvivenza e al superamento del dramma.
Nel 2002, lo scorso anno, Bordin ha intrapreso un nuovo grande ciclo di opere dedicate ad un'altra città tragicamente distrutta durante la seconda guerra mondiale: Dresda.

Dresda e Hiroshima, entrambe città dei vinti, sono per me degli emblemi poiché, oltre ad essere state completamente distrutte, o quasi, se ne vorrebbe dimenticare la tragedia. Ancora una volta mi sono lasciato guidare dalla documentazione esistente. Volevo realizzare un serie di quadri di identica dimensione, raffiguranti le strade di Dresda, invitando l'osservatore ad addentrarsi nell'installazione percorso e a camminare come tra le macerie.
Ho volutamente ambientato questi paesaggi tra cieli azzurri e notturni stellati, al fine di rappresentare l'impassibilità della natura di fronte alle vicende umane. Mi piaceva l'idea che le stelle fossero li, affacciate ad osservarci, esattamente come miliardi di anni fa.

 

Un'opera contro la guerra e sulla memoria del padovano Bordin
L'utopia possibile di "Hiroshima"

di Virginia Baradel
(Il Mattino, 14 settembre 2003)

S'intitola "Hiroshima" ed è un lavoro che ha dell'incredibile: scorre come un nastro alto due metri e mezzo e lungo trenta e rappresenta quel tragico day after con una panoramica a volo d'uccello che include puntualmente strade, quartieri, il fiume e le colline, i resti del ponte e del castello cinquecentesco. C'è anche il cielo all'orizzonte. Macerie, polvere, alberi stecchiti e carbonizzati, luce tersa, nessun segno di vita e una meraviglia di colori come se invece della bomba atomica fosse stato l'arcobaleno a cadere su Hiroshima. Mauro Bordin, l'autore, è un giovane artista padovano che ora vive e lavora a Parigi. L'opera è esposta alla Festa dell'Unità di Padova in quel monumento di archeologia industriale che è il vecchio macello. Si trova appeso come un immenso fregio sopra gli spazi riservati, oltre ai quadri di Bordin, alle "farfalle" che portano sulle loro ali l'infinita molteplicità del visibile di Giorgio Poli e alle fotografie del Portello negli anni Cinquanta di Enzo Saviolo, il tutto per la regia di Giorgio Segato.
Agli antipodi di un altro e più famoso artista padovano, Maurizio Cattelan, Bordin dipinge, fa proprio quadri di pittura carnosa e lo fa in un modo figurativo estremo, figlio più dell'informale che dell'espressionismo, capace cioè di modellare paste alte col pennello a vista, Il risultato è una folla di segni e pennellate che vanno ad aggregarsi sino a evocare le cose rappresentate. Bordin aveva già dato prova di sapersi muovere molto bene per scelte sia linguistiche che tematiche ma "Hiroshima" è un sorprendente esercizio di utopia in forma di pittura. Egli infatti ha realizzato l'enorme dipinto con fogli rettangolari formato album, centinaia e centinaia di fogli. Questo montaggio a puzzle non appare affatto alla vista poiché prevale, con un'evidenza che trascina dentro alla veduta, la panoramica d'insieme, il sogno di Bordin è quello di realizzare un grande happening in cui centinaia di persone entrano simbolicamente in questo paesaggio (le dimensioni dell'opera sono tali da consentire una sistemazione ad ambiente) e poi acquistano un foglio-tassello i cui proventi andrebbero a qualche associazione benefica impegnata sui fronti di guerra. Ma quel che è più singolare è che queste persone dovrebbero poi, ad un anniversario di Hiroshima stabilito, ritrovarsi e ricomporre il mosaico di quel paesaggio oppure, mancando, lasciare vuoti gli spazi dei loro fogli così lo stato futuro del dipinto rappresenterebbe la tensione tra memoria ed oblio. In mezzo a tanto parlare di rinnovato impegno da parte degli artisti questo ci sembra l'esempio più emozionante in cui ci siamo imbattuti.

Il fervore delle immagini
di Giorgio Seveso (2001)

(estratti)

[…] Nel groviglio delle pennellate che vengono scavandosi un loro itinerario, tanto torbido quanto lancinante e persuasivo, fatto dei più accesi rimandi espressionistici, si dipanano in queste tele le ragioni di uno sguardo preciso e impietoso che ha la straodinaria coerenza e – diciamolo pure in tempi come questi di così trionfanti e totalitarie neoavanguardie – l'insolito coraggio di essere fino in fondo e irrimediabilmente uno sguardo figurativo. Cioè uno sguardo che, pur nella sua lancin ante ricerca di individualità si pone senza esitazioni nella continuità di una tradizione pittorica precisa, quella appunto di un solco di espressionismo europeo che procedendo dai Permeke e dai Soutine può arrivare fino ai Giacometti e ai Varlin.

[…] Se Bordin vede un'onda, insomma, o le pieghe e i rigonfi disfatti di un lenzuolo, o la scoscesa maestosità di un monte di pietra e di ombre profonde, è solo la loro apparenza letterale che egli ne coglie dalla memoria o dagli occhi. L'istinto, subito, ne viene introiettando le tracce e la trama, ne assorbe l'essenza, ne assimila la struttura scarnificata fino alle sue interiorità molecolari più sepolte, per poi restituirle sulla tela con una sorta di robusta, solida, esplosiva metabolizzazione. Non è più dunque, una montagna, un letto sfatto, un' onda di tempesta che vediamo. Non è più – meglio – solo quel modello, posto sotto all'immagine come una sinopia a ricrearne pittoricamente la dimensione fisica. È invece – e in più – la sua impronta lirica, profondamente trasformata, profondamente transustanziata, tirata all'estremo limite dei suoi significati, della sua presenza come dato poetico autonomo, monade lirica sulla quale s'impernia, cresce e si riassume la commozione dell'autore.

 

Mauro Bordin : il futuro della giovane pittura italiana non è il vuoto
di Renato Valerio (1999)

(estratti)

[…] Questi suoi mondi, sono dipinti con straordinarie variazione ritmiche così penetranti, che ci rivelano la mutabilità degli aspetti della vita, dei loro accadimenti connotati dalla natura dei propri umori, delle loro sensazioni e del pulsare che le anima. Ed è proprio in questo territorio, che emerge la grande lezione del passato che Mauro ha fatto propria : nello scrivere con la sua pittura, egli sembra far intrecciare su di uno stesso crinale esplicativo e in simultaneità, i valori attestati dalla intensificazione contemplata nell'azione di “fermare l'istante dentro” attraverso la concezione impressionista, che voleva il colore quale mezzo per “affermare il vero” - e dall'altra - il punto di vista dell' espressionismo, secondo cui, come delucidato da Chaime Soutine “... non esiste una realtà esteriore da riprodurre fedelmente”, che in pratica, chiama in causa e coinvolge di più, l'emozione immediata e dell'agire di più valenze (stati d'animo, ansie, gioie, dolori, pensieri, riflessioni) che vengono rivelati dentro tutta la formulazione della scrittura pittorica globale, e che non sono pertinenti alla realtà esteriore. Ed è proprio a cavallo di questo crinale (tra le lezioni dell'impressionismo e dell'espressionismo) che si sta congetturando il discorso artistico di questo nuovo talento della giovane pittura italiana. La risultanza del suo operare, produce due indirizzi di pensiero diversi e diversificati – propri e distintivi – come i concetti espressi sia nell'idea impressionista che in quella espressionista – esperienze che fondendosi nel suo lavoro, promuovono una sorta di compenetrazione di valori, che sono un po' la sommatoria fra i due concetti.

[…] Sono, questi suoi elementi (stanze, alberi e distese marine) luoghi intensamente vissuti e amati, che non sono stati presi in considerazione soltanto come pretesto pittorico fini a se stessi, ma sono anche concepiti come la “visione del mondo”. Ad ogni frammento di interno di una stanza, di un albero o di un mare, che si compongono di impulsi formali e strutturali pittorici, si vanno ad aggiungere altrettanti motivi e ragioni di ordine artistico ed estetico – e quindi – poetici e umani, che sono appunto i valori peculiari che distinguono e conferiscono a queste creazioni, la pienezza del loro pathos. Tutto questo relazionarsi, avviene con il sostegno di una azione ricognitiva dentro la storia della pittura e dell'uomo, che si avvale e si nutre, di una diligente opera di ricerca e di quella dose di irrinunciabile spiritualità e di catarsi, che contribuiscono a concorrere, alla corale unità e compiutezza della vita delle forme, che Bordin, chiama e crea a protagoniste nella sua vicenda artistica personale. Per questo artista veneto – in definitiva – le sue stanze, i suoi alberi, le sue marine, sono “frammenti di visione di un intero universo”.

 

Interni : metafore del senso
di Giorgio Segato (1996)

(estratti)

[...] In una figurazione di matrice indubbiamente espressionista, che però accoglie qualche suggestione informale nei giochi di frantumazione e fibrillazione della luce, La stanza al letto è per Bordin metafora dello stratificarsi della consapevolezza esistenziale e della volontà/necessità di un ascolto che adotta il ritmo segnico teso e ansimante delle più profonde ragioni dell' essere. L'artista rinnova così l'attenzione a un luogo come teatro e come testimonianza dell'esistenza, e a tempo stesso come ‘forma' di esistenza.

[...] Di qui il rifiuto di chiudere i segni, di bloccare le architetture, di fermare la luce: nei segni registra invece il montare di una tensione visibile, di una sensibilità irritata, che si traduce in colore, in pigmento con una sua fisica organicità e vitalità capaci di contaminare le cose, penetrare i corpi, ‘confondere' le atmosfere e gli umori, in un pullulare di segni che è pullulare di ricordi, di frammenti di esperienze, di inquietudini, di sgomenti.

[...] Tutto nella sua pittura e nei suoi interni è instabile e momentaneo, eppure si inserice nella stabilità e continuità tematica della stanza. In essa appare un fusso ininterrotto di energia, un agglomerarsi di materia in oggetti come si presentano a una coscenza eccitata e vigile; e la luce che viene dalla finestra (e dalla coscienza) si impasta alle cose, che sembrano sciogliersi, sfarsi, alludere a una compenetrazione e partecipazione sensoriale attraverso una sorta di dilatazione delle maglie della realtà (trama e ordito delle immagini).

[...] Sono, quindi, il gesto e la luce/colore (diversamente potenziati a scavare e a fondere la materia pittorica come per estrarne la linfa e piegare a una statica visione le apparizioni) i veri protagonisti dell'espressione/comunicazione di Mauro Bordin: appartengono a una sensorialità percorsa mentalmente, non sono veristici né naturalistici, ma pulsionali, conseguenti a una volontà di registrazione di atmosfere, di gradienti luminosi, di percezioni e di relazioni con la realtà intima, piuttosto che con la realtà oggettiva, anche se la realtà oggetiva - la stanza da letto - diventa il luogo/emblema della dimensione psichica, la camera di risonanza dell' oggettuale nello spazio interiore. E' pertanto alla modulazione del segno e della luce che si deve guardare per cogliere le varianti nel ciclo tematico di Bordin, come elementi di un racconto, di un'indagine ricognitiva esistenziale, entro cui si intrecciano e si dipanano sentimenti diversi: senso di disfacimento, di dissolvimento, di morte, luce di resurrezione, senso di abbandono, di fuga nel sogno, di solitaria immersione nella memoria nostalgica, onirica e sensitiva; riascolto delle energie, desiderio di espansione dei sensi, di vibrazione intima, di riscatto morale - se non ancora fisico - dalle panie di una condizione umana piena di incertezze, di insicurezze.

 

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