Giorgio Segato e Mauro Bordin: 6 agosto 1945. Il 98 % di una città allora di circa quattrocentomila abitanti è disintegrata dalla bomba atomica. Oltre settantamila furono i morti nel giro di pochissimi istanti, polverizzati o carbonizzati, molti, molti di più quelli in conseguenza delle radiazioni e degli effetti collaterali alla catastrofe, decisa come momento esemplare per por fine alla guerra. La documentazione dell'evento è nel Centro della pace, opera dell'architetto Kenzo Tange, costituito da un museo e da cinque grandi ospedali di cura e di ricerca, uno dei quali chiamato 'bomba A'. Ogni anno si rievoca questa immane tragedia che ha segnato profondamente la metà del secolo scorso, occupando l'immaginario collettivo, diffondendo la paura del nucleare, promuovendo la convivenza obbligata con l'eventualità della distruzione totale a causa della conflittualità permanente dei blocchi ideologici delle grandi potenze prima, e ora in conseguenza delle tante guerre locali, della competizione per il controllo delle materie prime (non solo petrolio), dei fondamentalismi religiosi. Le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno nuovamente sollevato l'allarme nucleare e mostrato un impressionante potenziale distruttivo, fatto sentire la spregiudicatezza del potere del nuovo imperialismo americano. I venti di guerra (Africa, Kossovo, 11 settembre, Afghanistan, Iraq) hanno sollecitato Mauro Bordin a riflettere sul suo ruolo di artista testimone del tempo, esploratore del proprio mondo intimo, di idee, di sentimenti, e di interprete della realtà circostante, del suo significato a livello individuale e a livello collettivo. Sono cresciuto in un Paese e in un'epoca in cui l'idea della guerra apparteneva a realtà lontane. L'intervento italiano, dapprima nella guerra del Golfo e successivamente in quella dei Balcani, credo abbia rappresentato un trauma per molte persone. In quel per lodo però non ero ancora in grado di esprimere un 'idea politica e sociale attraverso i miei dipinti. Dopo l'attentato di New York e la successiva guerra in Afghanistan decisi che il tempo era venuto. Concepii allora un progetto artistico a cui diedi il nome di "Progetto Hiroshima". E innanzi tutto un monumento alla memoria, una riflessione sulla testimonianza collettiva che mette in scena una rappresentazione metaforica e rituale dell'azione distruttiva dell'uomo e delle possibilità di unione e di ricostruzione. Il dipinto rappresenta il paesaggio di Hiroshima dopo l'esplosione della bomba atomica al mattino del 6 agosto 1945. Il formato è monumentale: due metri e mezzo di altezza per circa trenta metri, composti da più di 200 parti assemblate. Il progetto operativo di realizzare pittoricamente l'immagine della smisurata "spianata" della città sorta attorno a un castello del 1591, e il progetto espositivo in un allestimento da percorrere piuttosto che da vedere frontalmente, così come il 'destino' auspicato dall'autore per le singole parti (diaspora e periodica, rituale, ricomposizione) convergono sulla medesima finalità: mettere insieme, come artista, come pittore, il paesaggio di morte e di annientamento, riquadro per riquadro, momento per momento, dalle colline azzurre a sinistra al castello e alle foci del fiume Ota al centro, dai pochi resti delle alte costruzioni del cuore urbano attorno alle anse fluviali fino all'aprirsi della vasta pianura a destra, studiando ogni particolare, ogni residuo del fungo e del vento atomici, che resteranno memorabile, indelebile tragico retaggio nella storia e nella cultura dell'umanità, segnali di un radicale mutamento nei rapporti politici, economici, ideologici, ambientali. La meticolosità compositiva ed interpretativa del pittore, la misura dell'opera in altezza, sovrastante di molto la figura umana, e in lunghezza (ben trenta metri) creando un tempo lungo di percorso e di sollecitazione sensoriale, e, inoltre, la scelta stilistica e materica di una figurazione di realismo atmosferico evocante piuttosto che oggettivo o espressionistico, accentuano l'effetto di assorbimento dell'osservatore nel luogo dipinto e nella durata. L'idea di Bordin è quella di produrre un forte effetto scenografico di più diretto coinvolgimento, e capace di dare ben più di un'informazione visiva, cioè anche di infondere una consistente corporeità all'immagine, così da provocare risentimenti fisici, onde sinestetiche lunghe e profonde. Il progetto aspira anche a proporsi come tramite di una periodica celebrazione di Hiroshima, interrompendo la diaspora dei fogli venduti separatamente e ricomponendo l'insieme per quanto possibile - in luoghi e tempi convenuti, con la partecipazione, attiva (di presenza effettiva) o passiva (di assenza che comunque manifesta il degradarsi dell'opera) degli acquirenti: un'idea utopica, naturalmente, specialmente se si considera la quantità e la fragilità intrinseca dei fogli, e la difficoltà, oggi, di creare momenti di aggregazione così speciali, ma utopia positiva che, in ogni caso, rende bene l'alto significato simbolico di un intervento artistico che vuole esprimersi contro la guerra, contro tutte le guerre come distruzione e morte, dipingendo gli effetti di una deflagrazione atomica di oltre cinquant'anni fa, reinventandola nel colore, nell'atmosfera mortale del dopo esplosione, nella trasparente, tersa desolazione di dopo la ricaduta della polvere radioattiva. Ora Hiroshima è ricostruita; la restituzione è stata rapida e ben orchestrata col processo di cancellazione dalla memoria visiva di superficie, ma certamente la sua distruzione resta tra gli eventi che hanno cambiato, sconvolto la storia e l'uomo stesso. Mauro Bordin ci propone un efficace "memento", come allarmata difesa della pace, in una sorta di datzebao dipinto, che ha il valore di un grande murale di informazione socio-politica oltre che estetica, smontabile e ricomponibile e in ogni sua parte testimonianza di distruzione, di morte e anche di impotenza di fronte a un così alto (e tanto maggiore oggi) potenziale di annientamento, di autoannientamento dell'uomo, o, meglio, dei governi degli stati egemoni e sempre di più anche di stati minori per una irrazionale corsa al nucleare, agli armamenti di distruzione di massa e su grande scala come deterrente interno ed esterno. L'armamento del globo ha raggiunto livelli tali da poter distruggere il globo stesso e ogni essere vivente centinaia e centinaia di volte in pochi minuti (The age of overkilling fu definito il nostro tempo già una trentina di anni fa e più). Guerre, distruzioni, morti, inquinamento, contaminazioni, deformazioni e degenerazioni genetiche, alterazioni ambientali aumentano costantemente nelle varie parti del mondo nonostante il pericolo che Hiroshima e Nagasaki testimoniano: molto si è visto e letto sulle due città pressoché disintegrate, molto si torna a vedere e a riportare alla memoria ad ogni anniversario; moltissimo, credo, non è stato detto, non si è visto, viene taciuto, ma il 6 e il 9 agosto 1945 restano certamente come date indelebili nella storia dell'umanità e degli orrori che le guerre producono, piccole o grandi che siano, quale che sia il coinvolgimento territoriale. Mauro Bordin ha preso in esame i documenti fotografici e le relazioni sul dopo bomba atomica e ha composto una lunga veduta panoramica di Hiroshima, evidenziando la trama delle strade, le prospettive deserte, i resti di palazzi e di quartieri, del castello attorno al quale la città si era sviluppata, le grandi anse del delta fluviale dove sorgeva uno dei porti più trafficati del Giappone, le colline, gli spazi dei vasti giardini. Nonostante la presenza di ruderi urbani, colpisce subito l'assenza o la scarsa quantità di macerie: uomini e materie si sono dissolti per il calore senza lasciare traccia, neppure un'impronta. Di qualche antico albero si vede la struttura carbonizzata in un lampo, i residui abitativi sono sconvolti e svuotati, come se l'evento fosse accaduto da tempo e il territorio da tempo fosse abbandonato, terrain vague, di nessuno e senza più forme di vita. Restano evidenti i depositi della ricaduta della polvere atomica, in strati e colori diversi, ad ammalare il terreno ad ammorbare un'aria tornata tersa sul nulla rimasto. Non poche difficoltà ho dovuto superare nell'affrontare un così delicato soggetto, a partire fin dall'approccio stesso. Chi abbia visto le foto originali di Hiroshima, difficilmente avrà avuto la percezione dei colori. Ma il mio intento non era quello di documentare, ed in più ho avuto il vantaggio di una certa oggettività datami dalla distanza, sia temporale che geografica. Volevo dedicare il mio dipinto alle vittime della bomba atomica e alla loro progenie, che ancora porta segni ben visibili. Nell'atmosfera generale introdussi un senso di morte, come presenza implicita, permeante, cercando di mettere in primo piano - col colore - l'energia vitale, la spinta alla sopravvivenza e al superamento del dramma. Dresda e Hiroshima, entrambe città dei vinti, sono per me degli emblemi poiché, oltre ad essere state completamente distrutte, o quasi, se ne vorrebbe dimenticare la tragedia. Ancora una volta mi sono lasciato guidare dalla documentazione esistente. Volevo realizzare un serie di quadri di identica dimensione, raffiguranti le strade di Dresda, invitando l'osservatore ad addentrarsi nell'installazione percorso e a camminare come tra le macerie. Padova, 5 settembre 2003 |
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