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Intervista Mauro Bordin Martial Guédron marzo 2014

M.G. Caro Mauro, considerando l'evoluzione del tuo lavoro su un lungo periodo, sono colpito da un duplice orientamento: dallo spazio intimo e privato verso la distesa di vasti paesaggi sinistrati, e da quest'ultimi verso una natura più lirica, non  più devastata dall'uomo. E tu, come lo spieghi?

M.B. La risposta è legata al mio vissuto personale. Fin dall'infanzia, mi sono interrogato sul mio “posto” nel mondo. Senza dubbio la mia vocazione artistica è nata dalla ricerca di una risposta a questa domanda molto semplice e universale. Durante i miei studi, ho capito che l'arte non può essere semplicemente una terapia egocentrica, è dunque indispensabile che altre persone possano condividere quello che l'artista esprime. Ma quando ho cercato un tema per suscitare questo scambio e questo legame speciale con gli spettatori, non ho trovato nulla di più interessante che esprimere il disagio stesso,  ovvero la difficoltà che provo a trovare una ragione di esistere, il mio posto nella società. Ora, questo si esprime nella relazione interno/intimità e esterno/ignoto nelle mie stanze da letto. Per quanto riguarda i paesaggi devastati dalla guerra o altri interventi umani, la questione è sempre la stessa, ma proiettata in una scala sociale più ampia: che posto abbiamo nel mondo e che tipo di relazione abbiamo con esso? Per quanto riguarda il lavoro più lirico sul paesaggio, ci vedo un tentativo di riconciliazione con la natura; in fin dei conti siamo prodotti della natura e probabilmente se facessimo un uso migliore del nostro cervello, cercheremmo un equilibrio rispettoso con essa, piuttosto che la dominazione e lo sfruttamento brutale. Detto ciò le specie rappresentate nei miei quadri sono talvolta specie mutanti che non esistono in realtà.
Dipingo il tempo sospeso, la domanda senza risposta, la probabilità che si abbia ancora tanta strada da fare prima di trovare il nostro posto. Dovrei forse ammettere che sono una persona di fede, ma senza un Dio.


Letto sfatto, 1995, olio su tela, 80x100cm


M.G. Potremmo quindi associare il tuo percorso a una tradizione che, dal Romanticismo fino ai grandi astrattisti americani come Rothko, attraversa numerose pitture, quelle cioè che suggeriscono che sia indispensabile, sia per l'artista che per gli spettatori, cercare un senso al di là delle cose visibili a occhio nudo, soprattutto in un mondo secolarizzato come il nostro?

M.B. Si, credo che sia precisamente il mio percorso artistico. Trovo affascinante la pittura astratta del dopoguerra, ma soprattutto quella che deriva dalla realtà. Secondo me, la realtà, attraverso la rappresentazione, è troppo importante per rinunciarvici. Tutto ciò appartiene al linguaggio del disegno, della pittura. Un artista che si accinge a raccontare delle storie a partire da materiali di questo tipo ha immense possibilità davanti a lui e può accedere a diverse aeree di conoscenza.
Personalmente, credo di captare le inquietudini che attraversano la nostra epoca, il nostro spazio/tempo: cerco di renderle visibili attraverso un approccio poetico, “lirico” come hai detto bene. Allora emergono dei soggetti che parlano di solitudine, di difficoltà a confrontarsi all'altro, alla natura, a se stessi, e permane una relazione al caos, all'entropia.
Amo la pittura che c’interpella.


La stanza del fotografo, 1995, olio su tela, 90x130 cm


M.G. Senza mai cadere nel passatismo o l'anti-modernismo, mostri un attaccamento alla rappresentazione che mi sembra nutrito da un rapporto fecondo e essenziale, per te, alla storia della pittura italiana dal Rinascimento in poi. Ne abbiamo già parlato, ma potresti ripetermi più precisamente che ruolo ha avuto nei tuoi anni di formazione o crescita questa eredità e che legame conservi oggi con essa?

M.B. Non vorrei sembrare pretenzioso, ma essendo nato a Padova e avendo studiato all'Accademia di belle Arti di Venezia, ho avuto sotto gli occhi molte opere magnifiche! A Padova, per esempio, gli affreschi di Giotto, Giusto De Menabuoi,  Altichiero da Zevio, Jacopo Avanzi. Nelle cappelle gotiche e di fronte alle opere dei primitivi italiani, si vive veramente l'esperienza dell'opera totale, si è avvolti, immersi nella pittura, nel racconto e nelle immagini. Inoltre, bisogna sottolineare che la pittura e la scultura sono perfettamente integrate all'architettura, poiché sono concepite nella stessa materia: la pietra, la calce, gli ossidi. Così si è nello stesso ambiente minerale, un ambiente di una straordinaria omogeneità. Questa sensazione di una pittura che avvolge l'osservatore, l'ho ritrovata in seguito in Tintoretto, in Tiziano e negli artisti manieristi in generale. A mio avviso, queste opere si sposano meno bene con l'architettura, poiché restano ritagliate, separate da pesanti cornici lignee. Insomma, siamo lontani dalla leggerezza delle epoche precedenti. Ciò nonostante, adoro i manieristi: hanno elaborato delle opere teatrali, che ci invitano a partecipare ad una rappresentazione. Con Tintoretto, ma anche con Tiziano, ci troviamo in atmosfere notturne, col suo mistero, grazie al calore evocato dal legno, dalle torce infiammate, dai personaggi fantomatici. Tiziano e Tintoretto sono i miei preferiti.
Trovo anche molto interessante il tentativo, che risale purtroppo all'epoca fascista in Italia, di un'architettura che si sposa non soltanto con la pittura e la scultura ma anche col mobilio dell'epoca: un esempio molto bello si trova anch'esso a Padova, il Palazzo del Liviano, dell'architetto Gio Ponti, con gli affreschi di Massimo Campigli e le sculture di Arturo Martini. Penso inoltre a Mario Sironi, che è stato un pittore magnifico di quell'epoca. Quegli artisti hanno cercato di recuperare delle estetiche antiche – quelle dei bizantini, dei primitivi italiani – per concepire un'arte in continuità col passato, ma al contempo moderna.
Detto ciò, attenzione, non sono un conservatore! Nato in una famiglia modesta, non avrebbe senso. Penso semplicemente che non si debba essere in rottura col passato; e tra l'altro trovo che sia impossibile. La mia opera Progetto Hiroshima è chiaramente impegnata in quest’ottica. Per me, inoltre, non esiste un progresso ineluttabile, questo è un pensiero a breve termine. Credo che nell'arte, come in altri saperi, il passato sia una conoscenza che bisogna  mantenere, conservare preziosamente come una ricchezza, per poter costruire l'avvenire su basi solide.


Rovine, olio su tela, 2005, 97x130 cm


M.G. Il fatto di accordare molta attenzione alla tecnica – so che consulti dei trattati antichi – rientra per te nella stessa relazione con l'eredità del passato? Voglio dire non per puntare a una sorta di neoclassicismo kitsch, ma alla volontà di un'appropriazione dinamica? Penso al celebre articolo del critico americano Clement Greenberg, «Avanguardia et kitsch», scritto all'inizio della seconda guerra mondiale, in cui afferma che l'avanguardia è la sola difesa autentica della tradizione di fronte l'invasione del kitsch...

M.B. Ho l'impressione che ci siano molti malintesi quando si parla di «tecnica» o «tradizione». Sono dei termini che, come «decorazione» o perfino «arte», si prestano a significati oggi divenuti ambigui, addirittura peggiorativi. Avere la padronanza della tecnica, per un pittore, è un po' come conoscere la grammatica per uno scrittore. Bisogna essere all'altezza di quello che si vuole esprimere. Io non sono convinto che esista ancora una tradizione in pittura. Parliamo piuttosto di un'eredità culturale ed estetica. Le diverse tecniche, nonostante i trattati, sono delle conoscenze ampiamente perdute. Negli atelier, l'apprendistato si svolgeva oralmente da maestro ad allievo, queste pratiche sono state abbandonate da molto tempo e lo stato di conservazione delle opere dell'ottocento testimoniano già della perdita di conoscenze in quell'epoca. Personalmente, leggo dei trattati per capire come gli artisti hanno realizzato tali meraviglie, ma sono cosciente che dipingere oggi come gli antichi non sia molto utile, salvo se si vuol far carriera come falsario! Inoltre, ci sono delle tecniche che amo per la materia, come l'affresco e il mosaico, ma che non sono più possibili oggi, perché si deve vivere a passo col proprio tempo. Aggiungerei che il disegno e la pittura appaiono ben prima della scrittura, le immagini giunte fino a noi – penso alla grotta di Chauvet o Lascaux – nonostante l'età considerevole, ci sono molto familiari. Forse l'uomo è nato con la capacità di elaborare e percepire un certo spettro di immagini? Forse tradizione e tecnica sono condannate a evolvere o a perdersi nel tempo, privando numerose immagini delle loro implicazioni culturali, ma forse non della loro potenza evocatrice. Non saprei decidermi.
Per ritornare alla mia pittura e al mio rapporto con tecnica e tradizione, posso ammettere che mi piace che i miei quadri, anche attraverso una tessitura contemporanea, ricordino delle opere del passato – italiane, perché no ? –, per via dei colori o della composizione. È la mia eredità culturale. In effetti, credo di essere affascinato da coloro che riescono a fare del nuovo a partire da un materiale antico. Lucien Freud, per esempio, ha dipinto dei nudi e ritratti tutta la vita, ciò nonostante ha saputo realizzare delle immagini nuove, contemporanee, cosa estremamente difficile da realizzare. Bisogna tra l'altro diffidare della prima impressione, un'esecuzione tecnica può sedurre, ma nascondere un vuoto concettuale. Dipingere un motivo su di un formato smisurato, per esempio, può impressionare, ma potrebbe rivelarsi come portare un orologio enorme ed appariscente ad un polso troppo sottile. Bisogna che ogni gesto tecnico sia al servizio del significato dell'opera.


No Man's Land III, 2006, olio su tela, 97x162 cm


M.G. Oggi viviamo come si sa nell'era della riproducibilità digitale delle opere d'arte, che comporta la loro smaterializzazione, l'uniformazione una percezione evanescente attraverso gli schermi luminosi. Quali sono le reazioni delle persone che entrano per la prima volta in contatto diretto con le tue pitture? Come sono percepite? Che domande ti rivolgono più spesso?

M.B. Spesso le persone sono colpite dalla materia della pittura, che definirei come « generosa » per la materia, ma anche per la ricchezza dei colori. Mi domandano che tipo di tecnica o pittura utilizzo.
Credo che i miei quadri siano ricchi in generale, dal punto di vista cromatico e gestuale. In effetti, sono appassionato di musica e concepisco la pittura come una composizione musicale; detesto la monotonia, la piattezza, la mediocrità nell’arte. Preferisco le opere generose, passionali. M’immagino Soutine mentre dipinge: le sue opere respirano la vita, la passione, i suoi stati d'animo. Bisogna provare empatia con l'artista, immaginare la sua vita. In francese (anche in italiano n.d.t.), si dice « chi si assomiglia si piglia »... Questo è vero anche per le opere d'arte. Esistono artisti ammirati che non posso sopportare quando li penso al lavoro perché immagino la loro pratica noiosissima. Per me, l'arte deve toccarci al livello più intimo del nostro essere, farci provare delle emozioni.


Progetto Hiroshima, 2001-03, 30mx2,5m, olio su carta, esposizione al Padiglione Cornaro, Padova, Italia


M.G. Quello che dici mi ricorda le parole del saggista inglese Walter Pater, quando scriveva nel 1877 in un saggio su Giorgione e i pittori veneziani che « tutta l'arte aspira alla condizione della musica ». La formula si applica evidentemente molto bene alla pittura di paesaggio, ma possiamo anche pensare alla pittura non-figurativa. Non sei stato mai tentato dall'astrazione?

M.B. Sono sempre stato perplesso di fronte alle definizioni « astratto » e « figurativo ». Tanto più che la maggior parte dei pittori astratti che hanno fatto la storia di questo genere erano dei figurativi che avevano raggiunto l'astrazione attraverso un lavoro di sintesi e di rielaborazione della realtà. Credo che la pittura astratta offra una visione non narrativa o non rappresentativa, attraverso un’interpretazione non riconoscibile del reale. C'è dell'astratto nella pittura figurativa e del figurativo in quella astratta.
Ho notato che la pittura che diventa « astratta » si avvicina spesso alla calligrafia o alla geometria, quindi, in qualche modo, al linguaggio simbolico o alla scrittura. Ciò m'intriga, perché nelle grotte preistoriche, troviamo già delle immagini « figurative » affiancate a dei segni « astratti ». Benché non conosca l’interpretazione scientifica di questi segni, mi sono fatto l'idea che questi potrebbero essere degli ideogrammi, una sorta di linguaggio derivato dal disegno. Questo significa che il disegno potrebbe essere al contempo rappresentativo di un'immagine legata alla percezione della forma e del reale nel caso degli animali disegnati, e di un'immagine simbolica legata ad un'idea, dunque al linguaggio, nel caso dei segni « astratti ». Ne consegue che i nostri lontani antenati avrebbero avuto un approccio al disegno che, in fondo, non era poi così diverso dal nostro. E forse questo è dovuto alla stessa conformazione del cervello, diviso in emisfero sinistro e destro...
Il ciclo meno figurativo che ho dipinto è la serie dei cieli stellati. La logica era quella di creare una serie di eventi all'interno di uno spazio non rappresentativo. Il risultato, come per numerosi artisti « astratti », è uno spazio di percezione, un luogo di emozione visiva che mantiene, nonostante tutto, la grammatica della pittura classica, con la ricerca di una prospettiva, ecc. Il cielo come soggetto è interessante, perché totalmente immaginario, si rivela al contempo figurativo ed « astratto ».
Personalmente, gioco molto su questa frontiera tra la rappresentazione di un'immagine precisa, soprattutto quando si guarda il quadro nel suo insieme, e un'immersione nella materia, quando lo si guarda da vicino.


Carduus mortaccina, 2013, olio su tela, 97x130 cm


M.G. Hai ragione: l'opposizione binaria tra figurativo ed astratto fa dimenticare i margini, gli interstizi, le ambiguità visive e questo è un peccato. Ma quello che dici mi evoca inoltre l'interesse che hai per la pittura di Morandi, con quella sua ripetizione di motivi molto semplici, in nature morte piuttosto austeree, ciò nonostante valorizzate da una materia e una luce al contempo palpabili e immateriali...

M.B. Si, Morandi per me faceva della pittura astratta. Il soggetto, però, era presente per suggerirgli delle forme e delle composizioni. La verità, nell'opera di Morandi, è effettivamente nella pittura: se penso ai suoi quadri, visualizzo i soggetti e li trovo privi di interesse, ma quando li vedo, resto affascinato dalle variazioni cromatiche, la semplicità e l'eleganza delle composizioni. Se non conoscessimo nulla della sua vita personale, potremmo pensare che Morandi sia stato un monaco che dipingeva delle icone di strane divinità.


Cedrus libanji with pedis rovesciata, 2013, olio su tela, 130x195 cm


M.G. Lavori molto per cicli. In che momento senti che quello in cui sei impegnato termina, che non ci saranno nuove composizioni sul tema? E quale necessità ti impone di cominciarne uno nuovo?

M.B. Non possiedo una ricetta precisa. Cioè talvolta le mie serie si ripetono a lungo nel tempo, altre volte possono avere vita breve, e mi capita pure, dopo anni, di aver voglia di riprenderle. Credo che una serie termini quando ho la sensazione di aver espresso bene quello che mi sta a cuore sull'argomento. Normalmente, la gestazione è relativamente lunga, per esempio, per l'ultima serie, Die Natur, avevo eseguito una decina di piccole tele nel 2009, le avevo in seguito accantonate e non le avevo mostrate a nessuno. Ho successivamente ripreso il tema nel 2012, con dei formati più impegnativi: il punto di partenza era fornito dalle stesse immagini, ma in una nuova dimensione, con l'introduzione della presenza umana. Il ciclo era infine maturo.


Sarcophagyon crassica urticante, 2013, olio su tela, 130x195 cm


M.G. Potresti parlarmi della tua serie di foreste di cedri dipinte durante un soggiorno in Libano?

M.B. Il gallerista libanese Fadi Mogabgab ha creato, in un villaggio di montagna, Ain Zhalta, una residenza estiva destinata agli artisti della galleria. Fadi ha l'abitudine d'installarsi con la famiglia nella casa adiacente alla residenza e coccolare i suoi artisti. Nelle vicinanze, si trova un ingresso alla riserva naturale dello Chouf dove si possono ammirare i celebri cedri del Libano. Ho chiesto e ottenuto la possibilità di potermi installare direttamente nella foresta. Abbiamo montato diverse tele di grandi dimensioni legandole con delle corde direttamente agli alberi. I quadri sono quindi rimasti installati tra gli alberi tutto il tempo necessario all'esecuzione. Bisogna dire che non c'erano visitatori nei paraggi, ero dunque veramente solo nel bosco! Anche se avevo spesso dipinto degli alberi in precedenza, era la prima volta che lavoravo dal vivo in una foresta, in genere scatto delle foto e lavoro in seguito nel mio studio. Ma in Libano è stato speciale! Avevo installato una decina di tele, un’intera area della foresta era diventata il mio studio. Era un luogo piuttosto sereno e molto calmo. Gli alberi erano magnifici; dovrei precisare che cerco e preferisco i più vecchi, perché il tempo li segna, il tronco e i rami si contorcono e si spaccano sotto il peso della neve: la postura dell'albero racconta lo sforzo dell'esistenza, la necessità di elevarsi verso la luce, emanciparsi dal suolo per raggiungere il cielo. L'albero è un magnifico simbolo dell'esistenza, della lotta per la sopravvivenza, ma anche dell'elevazione spirituale. Inoltre, con i loro grossi rami, i cedri hanno qualcosa che ricorda il corpo umano.


Residence Alia, Ain Zhalta, Libano, 2012


M.G. In questa serie, ritrovo al contempo l’impressione della navata di una chiesa e un cromatismo che può far pensare a certe cappelle in Italia dipinte ad affresco nel Trecento o Quattrocento. Poiché evocavi le tue origini all'inizio della nostra conversazione, penso certamente alla cappella degli Scrovegni di Padova...

M.B. Questi luoghi religiosi sono costruiti sulla base di una simbologia che deriva dalla natura: in effetti, la chiesa come edificio è la rappresentazione simbolica del mondo, con la sua base che rappresenta la Terra e i suoi punti cardinali, i suoi altari e pilastri che, come gli alberi, si elevano verso la volta celeste popolata dai santi, il tutto dominato da Dio. Il luogo di culto sostituisce il luogo naturale, in maniera simbolica. Ma all'origine, era proprio la natura il luogo sacro, dunque l'associazione che fai non è casuale... Quando ho dipinto i quadri su Dresda dopo il bombardamento, le rovine mi suggerivano l’idea di carcasse di cattedrali; era come rappresentare la distruzione di un'architettura sacra.


Sospesa, 2014, gymnase Henri Vidal, Montfermeil


M.G. Nonostante la tecnica pittorica utilizzata sia molto lontana dalla tua, per via della materia liscia che la caratterizza, trovo che il modo in cui  spieghi il ciclo della foresta, come modello naturale della cattedrale, è molto vicino a certi quadri di Caspar David Friedrich e più in generale a tutto il revival gotico che fu quello dei romantici.

M.B. Amo molto l'opera di Friedrich, la sua pittura è molto complessa. Mi piace l'idea di emozionarsi davanti allo spettacolo della natura, saperlo trasmettere, senza pathos, senza ingenuità, senza ridondanza, ma con semplicità e giustezza. Friedrich era geniale. Come diceva il mio professore del corso di fotografia all'Accademia di Belle Arti di Venezia, Angelo Schwartz, è più facile realizzare una bella foto di un evento eccezionale che cercarla nel quotidiano. Fortunatamente, ci sono degli artisti che riescono a meravigliarci senza far uso di effetti spettacolari.
Insomma, ho l'impressione di essermi ispirato a molti artisti, sia dell'epoca antica che contemporanea. Così, anche senza volerlo, questo traspare nei miei quadri. Credo che oggi, gli artisti occidentali, ormai orfani di una tradizione radicata nel sacro, hanno ancora la possibilità di cercare ispirazione nella storia. A mio avviso, non è cosa da evitare o da temere, poiché per quanto si faccia o si dica, siamo un prodotto della storia.


Priscilla, 2015, acrilico su tela, 100x81 cm


M.G. Quali sono i tuoi progetti attuali? Hai una serie che stai meditando o sei già impegnato in un nuovo lavoro che non ho ancora visto?

M.B. Sperimento attualmente delle nuove tematiche, ma non posso parlarne, perché non sono sicuro di volerle esporre. Ti posso dire invece che sono impegnato nella continuità della serie Die Natur, detto altrimenti sono alla ricerca di una nuova maniera di esprimere il rapporto tra l'uomo e la natura, che sia armonioso o conflittuale.
In sostanza, penso che gli artisti ci mettano di fronte a delle rappresentazioni e in questo modo descrivano il loro mondo che è spesso anche il nostro. Forse è banale dirlo, ma è importante tenerne conto, perché in verità nessuno è obbligato ad aderire alla visione dell'artista. Per quanto mi riguarda, propongo delle rappresentazioni della società umana e quello che mi pare evidente, in un mondo in cui si può accedere così facilmente a molteplici campi del sapere, è che non è più possibile ignorare « gli altri ». E quando dico « gli altri », non intendo solamente i nostri vicini o i colleghi, ma anche l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, le risorse naturali, ecc. Credo che diventi urgente concepire un sistema di funzionamento sociale meno egoistico, più attento al mondo che ci circonda. La mia pittura parla di questo, dà una visione ampia del mondo visibile e evoca i conflitti che accompagnano l'esistenza umana.


Baker, 2015, acrilico su tela, 100x100 cm


M.G. Giustamente, tra le tue ultime realizzazioni c'è questo grande dipinto murale partecipativo realizzato in Seine-Saint-Denis il cui soggetto è la Dea-madre che evoca la nascita delle civilizzazioni. Nelle foto che testimoniano la realizzazione, si vedono dei bambini, adolescenti e non solo : come hai fatto per coinvolgere gli abitanti del quartiere in questa composizione collettiva, gli hai dato delle direttive precise?

M.B. Il titolo di questa opera è SOSPESA. Il tema è la nascita delle civilizzazioni. Questa donna sospesa simboleggia la Terra, è incinta, evoca al contempo una dea-madre arcaica, simbolo di fecondità, ed una giacente. Quindi la vita e la morte, il ciclo della vita. È distesa sotto una volta stellata e si vede una costellazione di colori che cola verso di lei dalla parete su cui si staglia. È un'immagine archetipale che ritroviamo in molte società e civiltà fin dalle origini dell'umanità ed è questo suo carattere “universale” che ha particolarmente attirato la mia attenzione.
Per darle forma, sono stato accompagnato in tutta libertà da un gruppo di cinquantacinque persone, tra adulti e bambini, di cui una decina sono anche miei allievi nei corsi di arti plastiche.
I partecipanti avevano il compito di riprodurre un'immagine rappresentativa di una cultura o di una civiltà. E' opportuno precisare che quest'opera si trova nel quartiere Les bosquets (luogo di rivolte nel 2005, oggi in piena ricostruzione) ed è situata di fronte alla “Tour Utrillo” (Progetto Villa Medici del 93° dipartimento). Tale opera assume dunque anche una dimensione simbolica: la rinascita urbana non può non realizzarsi senza arte e cultura. La mia proposta,  accolta dal Museo del Quai Branly e integrata nel programma degli Ateliers Nomades, intende sorpassare le fratture ideologiche e religiose. L'intenzione era quella di trovare un denominatore comune alle diverse culture e, da questa base, proporre un'opera collettiva. Per questa ragione, ho scelto di rinunciare al controllo totale dell'esecuzione dell'opera condividendo, in questo modo, la realizzazione della stessa con gli abitanti del luogo che al tempo stesso ne beneficeranno.

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